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EMILIO VAVARELLA — Intervista di Gianluca Gramolazzi —

22/10/2019

Chi non ha mai posto una domanda a un’Intelligenza Artificiale? Chi non ha mai inserito in un carrello virtuale prodotti, solo perchè consigliati dal software? Semplici azioni, come il parlare o il comprare, concorrono alla creazione di algoritmi che predicono cosa è più affine ai nostri gusti, oppure più utile al nostro scopo. Amazon’s Cabinet of Curiosities (Algorithmic Enquiry n.1) è nata dal dialogo tra Emilio Vavarella, artista vincitore dell’Italian Council 2019 e ricercatore all’Harvard University, e Amazon Alexa, all’interno di ArtVerona in occasione di Art+b=love (?), festival italiano che indaga la creatività, vista come elemento indispensabile all’innovazione.

Gianluca Gramolazzi: Durante ArtVerona, è stata proposta Amazon’s Cabinet of Curiosities (Algorithmic Enquiry n.1), un’installazione in collaborazione con Amazon Alexa e con il contributo di 12 imprenditori. Quali sono gli assunti di base che soggiacciono all’ideazione?

Emilio Vavarella:Amazon’s Cabinet of Curiosities, una commissione speciale per art+b=love(?), è il risultato della mia cooperazione con Alexa Voice Shopping, l’intelligenza artificiale sviluppata da Amazon. Per realizzare l’opera ho posto ad Alexa una domanda: “Alexa, can you suggest a product for a new artwork?” (“Mi consigli un oggetto per realizzare un’opera d’arte?”). Ho acquistato il primo prodotto suggerito, al quale è seguito un nuovo suggerimento, che ho anche acquistato dando inizio ad una serie di suggerimenti ed acquisti a catena. Ho seguito ed acquistato prodotti in modo lineare fino all’esaurimento del budget messo a disposizione dal mio committente. Dal punto di vista umano i prodotti suggeriti da Alexa erano completamente imprevedibili. Al contempo, dal punto di vista di Amazon, il risultato rappresenta la conseguenza di precisi algoritmi. Nell’apparente tensione tra imprevedibilità e controllo sistematico e affidando il mio processo decisionale ad Alexa, Amazon’s Cabinet of Curiosities continua la mia ricerca sui meccanismi nascosti e invisibili del potere tecnologico, e la mia riflessione sull’autorialità artistica in un mondo saturato da processi autonomi e non umani.

G.G.: Tra i suggerimenti di Alexa ci sono una testa di unicorno, una mini turbina a vapore, uno spray per attirare pipistrelli, un salvadanaio interattivo. Oggetti che non trovano senso se non dopo un’azione ulteriore di significazione, attuata da te e da 12 imprenditori. Perché hai deciso di mettere loro in relazione Alexa?

E.V.: Un’installazione artistica non è composta unicamente da cose e materiali, ma è anche dalla messa in opera che, nella mia ottica di decentramento dell’autorialità artistica, volevo fosse il risultato di un processo sperimentale e orizzontale. Il gruppo di imprenditori coinvolto nel progetto ha preso parte ad un workshop a più mani, un processo di interpretazione e analisi in cui le competenze individuali e relazionali dei partecipanti sono state messe in campo per creare connessioni di senso inedite, conducendo alla produzione dell’opera finale. E’ stata anche un’occasione di scambio intellettuale a tu per tu, per esplorare collettivamente i limiti epistemologici e le potenzialità creative dell’intelligenza artificiale e umana.

G.G.: Ritieni che le macchine e le tecnologie abbiamo ridotto la possibilità dell’essere umano di essere creativo?

E.V.: No, non lo ritengo affatto. Non credo in nessuna forma di tecno-determinismo che vorrebbe l’essere umano come il diretto risultato degli effetti apportati dalla tecnologia. In modo opposto ma pressoché analogo, credere che l’essere umano sia intrinsecamente immune dall’impatto (socio-politico e psico-fisico) della tecnologia significa scadere in una forma altrettanto sterile di determinismo di stampo umanista. Credo che la creatività sia sempre stata un fatto tecnico, e ad Harvard sto investigando questi aspetti anche dal punto di vista storico, lavorando sui concetti di modello, tecnica e tecnologia del pensiero. E perfino quando, come in Amazon’s Cabinet of Curiosities, l’artista delega a degli algoritmi la sua capacità di scelta, resta comunque possibile la produzione creativa di nuove strategie di significazione. Forse diventa perfino più necessaria.

G.G.: La nostra esistenza è attraversata da algoritmi, i quali svelano aspetti, talvolta, sconosciuti di noi stessi. L’essere umano sta gradualmente incorporando sempre più aspetti tecnologici. Nelle tue opere, ho come l’impressione che emerga uno spirito di resistenza a questo processo, ponendo il conflitto con la leggerezza e l’ironia necessari. Credo sia il mezzo migliore per indurre a riflettere su una questione così importante. Ritieni che questo conflitto possa essere risolto materialmente? Se sì, come?

E.V.: Come hai notato i miei lavori sono spesso accompagnati da una riflessione su possibili forme di resistenza, tra cui l’ironia e la produzione di strategie di senso alternative. Si tratta, in ogni caso, di mediare il nostro rapporto con la tecnologia. Ma non credo che tale rapporto possa o debba essere risolto. La ‘risoluzione materiale’ del conflitto di cui parli potrebbe portare a due sole possibilità, entrambe, a mio parere, equamente pericolose. La prima risoluzione proverrebbe da una spinta neo-luddista che vede nella tecnologia il nemico da abbattere. In questa prospettiva il conflitto uomo-macchina potrebbe essere risolto da una ‘involuzione’ della tecnica: l’umano torna (ammettendo che lo sia mai stato) un semplice mammifero, pacificato – si fa per dire – da uno stato pre-tecnologico e vagamente tecnico, simile a quello di scimmie e lemuri. La seconda spinta risolutiva è di direzione opposta e proviene da ambienti transumanisti che vedono nella tecnologia un perfezionamento dell’essere umano. In questo caso la risoluzione avviene tramite una totale assimilazione: l’umano come cyborg libero da ogni costrizione psico-fisica. Io dubito che una di queste visioni si tradurrà in realtà, e credo invece che il concetto stesso di ‘natura umana’ sia inscindibile da quello di ‘tecnologia’. Umanità e tecnologia sono l’una il prodotto dell’altra. Il rapporto tra le due è improntato alla loro mutua riproduzione, e la risoluzione del loro rapporto comporterebbe l’annientamento di ciò che siamo. Che fare, dunque? Ammetto che, come tutti i rapporti, anche quello con la tecnologia può essere estremamente conflittuale. Per questo motivo esso va studiato, mediato, modificato, e, soprattutto, va affrontato da punti di vista diversi, coniugando le prospettive di ingegneri, scienziati, artisti, politici e filosofi.