Emilio Vavarella presenta al pubblico rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me): Sourcecode, esito finale della ricerca portata avanti per The Other Shapes of Me, progetto vincitore della sesta edizione dell’Italian Council (2019). Realizzato con la curatela dell’Associazione Ramdom ed ospitato negli spazi della GALLLERIAPIÙ di Bologna, l’articolato lavoro dell’artista esplora le origini della tecnologia binaria e le sue più recenti applicazioni: dalla tessitura alla programmazione, agli algoritmi, ai software, ai processi di automazione, fino alla completa digitalizzazione di un essere umano.
L’assordante rumore che in questi giorni accoglie i visitatori di GALLLERIAPIÙ è simile allo sferragliare di un vecchio treno in corsa. Aumenta e diminuisce, si fa sempre più intenso e incalzante e poi, all’improvviso, svanisce nel nulla, lasciandoti solo con i tuoi pensieri. Varcando la soglia dello spazio espositivo lo sguardo viene immediatamente catturato dall’imponente telaio Jacquard e dal video in bianco e nero di rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me), che si ripete in loop: sullo schermo si alternano mani operose e ingranaggi in movimento; e poi fili e ancora fili, rocchetti che si srotolano e tessere forate, in un incessante e ritmato processo che assume le sembianze di un rito. Di chi sono quelle mani instancabili e quanti significati impliciti o espliciti si celano dietro l’azione?
Il filo che cammina e si insinua tra i componenti del telaio Jacquard rievoca tempi lontani e mestieri quasi completamente scomparsi. Fin da subito il pensiero va alle donne della mia isola, alle più antiche tradizioni artigiane, alle poesie cucite di Maria Lai. Quelle mani, così precise e delicate, mi accompagnano nel mio vagare tra infiniti strati di senso, fino ad approdare al cuore del progetto, al suo significato più profondo.
La donna che orchestra magistralmente il monumentale telaio di fine Ottocento è la madre di Emilio Vavarella; per un anno intero ha lavorato alla traduzione del codice genetico di suo figlio, trasformandolo in tessuto. Tessera dopo tessera ha rimesso in fila le righe del suo DNA, lo ha ricostruito donandogli una forma nuova.
La ricerca di Emilio Vavarella riflette sulla relazione tra arte e scienza, tra essere umano e tecnologia, tra antico e contemporaneo. L’artista invita il visitatore a perdersi in un viaggio fatto di materia, di linguaggi codificati, di poetiche corrispondenze e di richiami alla storia e all’essenza dell’uomo. Ritorna al codice sorgente lavorando sul proprio corredo genetico, scomponendolo e mettendolo in relazione con la tecnologia: analogico e digitale dialogano ininterrottamente nel corpus di opere realizzato per rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me): Sourcecode, rendendo possibili visioni macroscopiche e microscopiche in cui la trama e l’ordito sono, metaforicamente, le direttrici sulle quali ri-costruire la vita.
Scrivendoci dagli Stati Uniti – paese in cui attualmente vive e nel quale sta conseguendo un dottorato in Film, Visual Studies and Critical Media Practice – l’artista racconta i dettagli del progetto in mostra presso la GALLLERIAPIÙ fino al 16 luglio 2021, mettendo in luce alcune delle caratteristiche più rilevanti della sua forma mentis e del suo approccio all’arte.
Ciao Emilio, benvenuto nel salotto di ZirArtmag e grazie per aver accettato il mio invito. So che in questo momento ti trovi negli Stati Uniti per un dottorato in Film, Visual Studies and Critical Media Practice. Come procede la tua esperienza ad Harvard e quali sono le connessioni tra gli studi accademici e i più recenti sviluppi della tua ricerca artistica?
Ciao Marika e grazie per l’invito. Il mio dottorato di ricerca procede benissimo. Tanto la mia tesi quanto le mie opere nascono da una riflessione sull’impatto del potere tecnologico sulle nostro vite, e in particolare sul nostro pensiero. Più che di punti di connessione parlerei di sovrapposizioni tra ricerca teorica, sperimentazione mediale e pratica interdisciplinare. La mia tesi, per esempio, si focalizza su come il concetto di essere umano sia cambiato in relazione agli sviluppi tecnologici, dal mondo antico a quello contemporaneo. È una tesi accademica semplicemente perché questo è il medium più adatto a questo tipo di lavoro, ma considero la tesi un’estensione di un corpus di lavori che investiga il rapporto essere umano-tecnologia utilizzando di volta in volta il medium più adatto a far fronte alle mie domande.
Hai alle spalle un percorso formativo molto articolato, che ti ha portato a girare il mondo. Quanto hanno influito il viaggiare e l’entrare in contatto con culture diverse sul tuo personale immaginario e sulla tua ricerca?
È sempre difficile capire fino in fondo quanto qualcosa che appartiene al nostro passato stia influenzando il nostro presente o possa influenzare il nostro futuro. Credo che viaggiare e vivere all’estero abbia già influito molto, ma i miei viaggi più importanti sono sempre stati quelli mentali. Il mio modus operandi si è raffinato nel tempo ma è rimasto sostanzialmente invariato, da Bologna, a Venezia, a Tel Aviv, a Istanbul, a New York, fino a Boston. Quel che per me conta maggiormente, a prescindere da dove vivo, è l’essere aperto ad altri modi di interpretare la realtà, di lavorare, di pensare. Non per omologare il mio pensiero a quello altrui, ma perché proprio nella differenza e nel confronto ci si può guardare dentro con maggior lucidità.
Quali sono le reazioni degli studenti che affrontano per la prima volta i tuoi corsi o si trovano, più in generale, a dover approfondire il tema dell’interdisciplinarietà e dell’incontro tra arte e scienza?
Non avendo ancora concluso il mio percorso di dottorato non ho ancora dei miei corsi, da Teaching Fellow posso semplicemente scegliere su che corsi lavorare. In linea generale, gran parte degli studenti con cui ho lavorato sono portati all’interdisciplinarietà perché impegnati contemporaneamente sia nel mio dipartimento (Art, Film, and Visual Studies), sia in altri dipartimenti, e c’è dunque un costante flusso di idee e interessi che travalica gli ambiti disciplinari. Il sistema universitario di Harvard permette di specializzarsi in aree disciplinari che in Italia sono considerate molto lontane tra loro. E quindi ho avuto studenti d’arte impegnati contemporaneamente su delle tesi in neuroscienza, intelligenza artificiale, biologia, o altre discipline scientifiche. Ciò che ricorre spesso nel lavoro di questi studenti è la voglia di ragionare in modo aperto e sperimentale, e la voglia di lavorare su loro stessi e sulla loro identità. Questo, secondo me, ribadisce l’importanza della ricerca artistica nella formulazione di nuove domande e nuovi modi di guardare le cose, ed il suo ruolo indispensabile nell’esplorazione della soggettività, sia propria che altrui.
rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me) è una videoinstallazione costruita a partire da un telaio Jacquard di fine XIX secolo. Dove hai reperito questo enorme macchinario e quali sono stati gli interventi necessari per farlo funzionare?
Ammetto che, inizialmente, non avevo nessuna idea di dove reperire questo enorme telaio, che non avevo mai visto di persona e che conoscevo solo attraverso i libri. Sapevo, però, che da qualche parte, e in qualche modo, lo avrei trovato. Ed ero altrettanto sicuro della fattibilità della mia idea: tradurre in tessuto il mio codice genetico utilizzando un telaio che è considerato da molti il primo computer di epoca industriale. Lavorare con tecnologie così datate, però, presenta alcuni ostacoli. Esistono solo un paio di aziende in Italia che lavorano ancora oggi con dei vecchi telai a cartoni perforati. La fortuna mi ha però dato una mano, perché una di queste aziende, la Tessitura Giaquinto, si trova a due passi dalla sede di Ramdom, l’associazione culturale che ha prodotto la mia opera tramite il bando Italian Council. È lì, nel sud della Puglia, che ho reperito il telaio, ed è all’interno di quella tesseria che il mio codice genetico è stato tradotto in tessuto da mia mamma. Il film Genesis, che è parte integrante della mia video installazione, narra proprio questo processo.
Lo spettatore che osserva Genesis si ritrova catapultato in un processo lungo, cadenzato, che assume le forme di un rito. Oltre all’aspetto unico, profondo e personalissimo legato alla natura del vostro rapporto, tua madre in questa occasione diviene emblema del lavoro femminile. Qual è stato il suo approccio al progetto? Ha dovuto imparare ad utilizzare il telaio o possedeva già delle conoscenze pregresse nell’ambito della tessitura?
Mia mamma ha lavorato come sarta e ricamatrice per gran parte della sua vita, e possedeva quindi molte delle competenze necessarie al progetto. Già prima di tuffarmi in questo progetto trascinandomi dietro tantissime persone, avevo sperimentato con lei la possibilità di convertire piccoli frammenti del mio codice genetico usando ago e filo. Ovviamente lavorare con un telaio di inizio secolo scorso ha richiesto un training specifico, soprattutto perché questi telai sono oggi molto rari, ma il training è stato facilitato dalle esperienze pregresse di mia mamma in ambito tessile. Il risultato, come il film Genesis mette in luce, è la sua assoluta padronanza del processo produttivo, espressa con naturalezza ed eleganza.
Nelle opere di The Other Shapes of Me il tuo DNA viene scomposto, ricomposto, intessuto; tu ci sei sempre eppure non ci sei mai e le informazioni contenute negli arazzi possono essere lette e riconvertite. Qual è stato il processo, dal punto di vista tecnico e scientifico, che ha portato alla realizzazione della serie?
Ci sono artisti che partono da sé stessi per parlare d’altro, e artisti che partono da altro per poi parlare di sé stessi. Io, in The Other Shapes of Me, parto da me stesso per scavare nelle origini della tecnologia binaria e nelle sue più recenti applicazioni: dalla tessitura alla programmazione, agli algoritmi, ai software, ai processi di automazione, fino alla completa digitalizzazione di un essere umano. Le opere in questa serie rispondono a processi produttivi leggermente diversi, ma che sono tutti espressione del mio codice genetico.
A prescindere dal tipo di tessitura utilizzata per ciascuna opera, ho spinto le tecniche e i materiali usati fino a raggiungere il loro limite tecnico (oltre il quale, ad esempio, un telaio si inceppa e un filo si spezza). Nel caso della video installazione rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me), il tessuto prodotto risponde in modo diretto alle possibilità di tessitura del vecchio telaio Jacquard utilizzato da mia madre. L’altezza del tessuto, ovvero il lato corto, corrisponde a sessanta centimetri, ampiezza fisica massima raggiunta dal telaio utilizzato. La lunghezza, invece, è stata dettata dalla capacità del telaio di comprimere, nella maniera più fitta possibile, tutti i miei dati genetici in un preciso intreccio di trama e ordito. Questo processo ha portato a un tessuto di circa ottantatré metri. Il particolare intreccio di fili, infine, è stato determinato dalla volontà di produrre un tessuto potenzialmente (ri)convertibile in codice genetico. Dunque un design che non è semplicemente visualizzazione, ma che corrisponde a una codifica potenzialmente decodificabile. Sarà tecnicamente possibile, in qualsiasi momento, ricostruire il mio patrimonio genetico ripercorrendo il tessuto e ricavando da esso quella matrice computazionale che è l’anello di congiunzione tra i fili di cotone che lo compongono e la materia di cui io sono composto.
Nella serie di arazzi Sections (The Other Shapes of Me) ho compresso il mio codice genetico alla più alta risoluzione tecnicamente possibile, trasformandolo in un arazzo policromo la cui dimensione verticale corrisponde alla mia altezza. Ho poi diviso questo tessuto in una serie di opere, ciascuna tanto alta quanto me, che corrispondono a sezioni specifiche del mio DNA. Anche in questo caso il mio codice è potenzialmente riconvertibile, ma è sezionato, e non è prodotto da mia mamma, ma da un enorme telaio Jacquard elettronico di ultima generazione. Infine, le opere della serie Samples (The Other Shapes of Me) sono arazzi Jacquard di piccolo formato. Ciascun arazzo corrisponde ad un mio campione di DNA visualizzato attraverso processi eterogenei di elaborazione digitale e prodotto su un moderno telaio Jacquard a controllo elettronico. Tirando le somme, ciascun tessuto risponde ad una precisa logica produttiva che a sua volta corrisponde ad una dimensione simbolica e concettuale molto stratificata.
La mostra in corso negli spazi di GALLLERIAPIU’ è stata preceduta da altri due progetti espositivi realizzati a Gagliano del Capo (Idee, Ipotesi, Presupposti e Oggetti) e Shanghai (Errori, limiti e malfunzionamenti). Mi racconteresti di più sull’esperienza in Cina e sulle tematiche affrontate in quell’occasione?
La prima mostra, intitolata “Idee, ipotesi, assunti e oggetti” si è concentrata sulla dimensione aperta, performativa e rizomatica della serie The Other Shapes of Me. La mostra presso la Modern Art Base di Shanghai, dal titolo “Errori, limiti e malfunzionamenti”, è stata l’occasione per mettere in relazione The Other Shapes of Me con le mie altre opere, insistendo sulla mia metodologia di lavoro e sul tema, a me caro, del limite tecnologico. Questo tema alimenta una linea estetica che è rintracciabile in molte mie opere esposte per la prima volta in Cina in occasione di quella mostra: la serie di 44 foto di The Sicilian Family (2012), l’installazione fotografica THE GOOGLE TRILOGY – 3. The Driver and the Cameras (2013) e il film Animal cinema (2017). Partendo da questi primi lavori la mostra giungeva al primo tessuto completo realizzato per The Other Shapes of Me accompagnato dal film Genesis (2021) e dalla serie di piccoli arazzi Samples (2021). Infine, la mostra si chiudeva con un video in loop della sequenza del mio genoma e con una rigorosa selezione di materiali di documentazione storica relativi alla tradizione tessile Jacquard in Cina e in Italia. L’attuale mostra che hai visitato a Bologna presso GALLLERIAPIÙ, intitolata “Sourcecode”, rappresenta il culmine di questo lavoro preparatorio, concettuale ed espositivo, e riporta il focus sulla mia produzione più recente.
Per ulteriori informazioni visita il sito dell’artista, attivo anche su Instagram come @emilio_vavarella.
Maggiori informazioni sulla mostra in corso sono disponibili qui e sul sito di GALLLERIAPIÙ