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THE ITALIAN JOB | Job n.3, Lazy Sunday

ENG – ITA


THE ITALIAN JOB | Job n.1, embarrassment party • Job n.2, An-Archiving Game • Job n.3, Lazy Sunday


THE ITALIAN JOB – Job n.3, Lazy Sunday, 2022. Video a 360° in 5.6K, 12 ore, colori, suono.

Lazy Sunday è la terza opera della serie THE ITALIAN JOB. Iniziata nel 2014, a cavallo tra Italia e Stati Uniti, questa serie intende evidenziare le strutture nascoste dietro temi quali legittimazione artistica, virtualità, lavoro immateriale, e relazioni 2.0 tra artisti e curatori.

Lazy Sunday nasce in risposta all’invito a prendere parte, dagli Stati Uniti, ad una residenza virtuale organizzata dal gruppo di ricerca AN-ICON all’Università degli Studi di Milano. Ho accettato l’invito ma ribaltando i presupposti della residenza virtuale: invece di partecipare a distanza ho trasformato il mio punto di vista in uno spazio aperto alla partecipazione di chiunque altro.

La mia opera consiste in un film di 12 ore realizzato con una telecamera a 360° e girato ininterrottamente l’8 agosto 2021, trasformando una domenica come tante altre, dal risveglio fino alla notte, in un’esperienza di Realtà Virtuale. Il film è reso disponibile esclusivamente per un giorno, dalla mattina alla sera, nelle dodici ore corrispondenti ai fatti filmati. Il fruitore utilizzerà un visore VR passando la mattina steso sulla mia amaca, mi seguirà attraverso le strade di Boston e Cambridge, e mi accompagnerà tra i sentieri boscosi del Massachusetts e in una gara di nuoto da una sponda all’altra di Walden Pond.

In un continuo cortocircuito tra il pubblico e il privato, il rifiuto e la partecipazione, il mio punto di vista diviene un campo d’azione che cattura, per qualche ora, altri sguardi. E sospeso tra apparente immediatezza e profonda mediazione, il mio corpo si fa avatar, virtualmente distante e intimamente vicino. Con i testi curatoriali di Elisabetta Modena e Sofia Pirandello.


[STANDARD TRAILER]

[VR TRAILER]


 

Un artista della domenica

Curatorial text by Elisabetta Modena

    «Generalmente han sguardi buoni
  /  sovente ingenui e un po’ da bambinoni
  /  c’è sempre in loro un po’ di dramma
  /  a capirli è solo la loro mamma.» Paolo Conte, Pittori della domenica (1984)

   Per definizione una residenza prevede che un artista trascorra del tempo in un luogo diverso da quello abituale per mettere a frutto esperienze, informazioni e incontri tramite la realizzazione di una o più opere inedite. Anche le residenze nel 12° atelier si sviluppano a partire da un luogo, che non è l’edificio milanese di Casa degli Artisti di via Tommaso da Cazzaniga, angolo, Corso Garibaldi, 89/A, ma la sua ricostruzione digitale realizzata sulla piattaforma virtuale Mozilla Hubs e raggiungibile all’indirizzo https://hubs.mozilla.com/Ut7XCwr/120-atelier/

   Tuttavia, passare il tempo della residenza e produrre delle opere da esporre all’interno di questo spazio virtuale non è un requisito vincolante del progetto, tanto che quando Emilio Vavarella ci ha informate di volere “ribaltare i presupposti della residenza”, ci siamo dette subito d’accordo. Invece di partecipare a distanza, Emilio avrebbe trasformato il proprio punto di vista in uno spazio aperto alla partecipazione virtuale di altre persone: saremmo andati noi da lui. Il nostro ospite – immaginavamo allora – ci avrebbe mostrato il suo lavoro portandoci dietro le quinte, forse anche nella sua casa, e magari ci avrebbe accompagnato nel campus dell’Università di Harvard, dove lavora come ricercatore. E così avremmo potuto scoprire la giornata tipo e lo spazio dell’atelier di un giovane e già affermato artista che lavora con il digitale: dalla residenza allo studio visit, pratiche tipiche del mondo dell’arte contemporanea a cui Vavarella si rivolge esplicitamente nel ciclo di lavori intitolato THE ITALIAN JOB di cui quest’opera avrebbe rappresentato il terzo capitolo. Lo scopo, del resto, era la produzione di un’opera “immersiva” e considerando le potenzialità della realtà virtuale di tele-trasportarci altrove e farci sentire fisicamente in un luogo altro, mi ero immaginata una vera e propria visita nel suo atelier.

   E invece, verso la fine di agosto, Vavarella ci ha spedito un’e-mail informandoci sul contenuto dell’opera che aveva appena terminato e sui luoghi in cui avrebbe portato noi e gli spettatori: “Gli highlights del film sono io che leggo in amaca sul tetto di casa mia, io che mangio un gelato con un’amica vicino Harvard Square, andare al lago in compagnia di amici, trekking nel bosco, gara di nuoto da una sponda all’altra di Walden Pond, letture improvvisate di poesia in mezzo alla natura, cena in solitaria, e lunga conversazione notturna sul balcone di casa e scambio di libri con un amico, poeta e professore”.

   Niente di quello che ci aspettavamo: l’opera consiste infatti in 12 ore di girato con una telecamera a 360 gradi posta sulla sua testa, in una calda giornata estiva (l’8 agosto 2021), in cui siamo trascinati nostro malgrado in giro dall’artista, nei luoghi da lui menzionati e senza poter interagire in alcun modo. Nella lunga performance, non c’è climax: tutti i momenti sono importanti e nessuno lo è davvero. La narrazione che l’artista sviluppa si basa certamente su un programma che è anche una sorta di sceneggiatura scritta per rendere lo spettatore partecipe di una giornata che a me non è sembrata poi così pigra, ma che mantiene comunque una considerevole dose di noia – sufficiente almeno da giustificare il riferimento alla pigrizia del titolo: THE ITALIAN JOB – Job n.3, Lazy Sunday. Quindi, a conti fatti, l’artista non ci svela niente del “dietro le quinte”, della “stanza dei bottoni”: non ci sono vernissage, gallerie, curatori, né opere in fieri, ma solo una qualsiasi domenica di cui riprende in un modo apparentemente amatoriale e trasparente, i luoghi, le persone e le cose.

   “Vavarella è un artista della domenica?”, mi sono chiesta. I pittori della domenica – un’espressione tutta italiana – sono quegli artisti che praticano l’arte per hobby. Dipingono di domenica, perché il resto della settimana sono impegnati a fare altro, stavolta in modo professionale: sono impiegati, operai, dirigenti (forse anche ricercatori?). Il pittore della domenica solitamente lavora en plein air, con una tecnica ingenua e naïf, avvalendosi di un’iconografia spesso logora, che non ha alcuna intenzione, né capacità, di innovare: magari la riva di un lago (del resto solo forzando la mano potrei rintracciare nel suo bagno pomeridiano un tentativo di aggiornare quella famosa domenica alla Grande Jatte).

   Tuttavia, le cose stanno diversamente: Vavarella aggiunge infatti con quest’opera un pezzo – credo importante – a quella galleria di lavori realizzati da artisti che hanno fatto del quotidiano la materia di una ricerca tutt’altro che dilettante. Non è poi paradossale, se pensiamo che le strategie dell’esposizione del sé, del proprio spazio di vita e di lavoro siano sovente diventate metafore capaci di andare oltre la loro unicità, anche quelle basate sulla noia o sulla sistematica rottura delle aspettative (cosa che avviene, per esempio, nelle quasi sei ore di riprese notturne dello studio di Bruce Nauman invaso dai topi nelle due celebri installazioni intitolate Mapping the Studio).

   E quindi, mi sono detta, Vavarella qui fa l’artista della domenica, e lo fa molto bene. Si compie così davanti a noi – anzi, tutto intorno a noi, a 360 gradi – un passaggio ulteriore rispetto a quella trasformazione dell’atelier da luogo fisico a luogo mentale avviata dagli artisti concettuali: lo spazio che condividiamo con l’artista non è infatti solo quello del progetto, ma anche uno spazio reale, diversamente materiale – fatto di una materia di pixel.
Ancora una volta, come è stato già ricordato, la strategia scelta è quella della burla, dello scherzo, della goliardata italiana: Lucrezia Calabrò Visconti lo ha del resto accostato a due grandi artisti italiani della beffa, Piero Manzoni e Maurizio Cattelan, in un testo curatoriale scritto per il primo capitolo della serie THE ITALIAN JOB – Job n.1, embarrassment party (che adottava come titolo quello scelto per la residenza online all’interno del quale nasceva da Marii Nyröp e che si concludeva con il “furto”, da parte dell’artista, dell’intero progetto espositivo e curatoriale).

   L’arte ha più volte sfruttato la messa in scena di un quotidiano che la realtà virtuale sembrerebbe poter far sentire in modo nuovo, nella sua totalità, addirittura vestendo i panni dell’artista stesso. Fingendo l’ingenuità di un pittore della domenica Emilio (ri)porta sulla scena il suo quotidiano riuscendo però nell’intento di farci apprezzare la differenza (e anche i limiti) tra un’esperienza in prima persona e la sua rappresentazione: sfruttando consapevolmente questo cambio di “formato” Vavarella è infatti in grado di trasformare una pigra domenica estiva in una lente a 360° su noi stessi, sul nostro punto di vista e sulla realtà in generale.

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Catch Me if You Can

Curatorial text by Sofia Pirandello

  «Pare che vada a fare un colpo in Italia»
  «Beh, sono contento: così imparerà a fare le cose sul serio»
The Italian Job di Peter Collinson (1969)

   Lazy Sunday è un film immersivo girato con una telecamera a 360°, pensato per essere fruito indossando un casco di realtà virtuale. È il terzo lavoro della serie The Italian Job con cui, a partire dal 2014, Emilio Vavarella riflette sulla legalità, sull’originalità e la legittimità dell’opera d’arte digitale, e più in generale sul rapporto tra materiale e virtuale nel quotidiano, e tra artista e curatore nel contesto delle nuove tecnologie. Nello specifico, Lazy Sunday è una finestra di dodici ore sulla vita dell’artista, che ha deciso di trasformare una domenica qualunque in un’esperienza virtuale. Chiamato a realizzare un’opera immersiva per il 12° Atelier, Vavarella ci invita a trascorrere con lui una giornata d’estate, ad abitare il suo mondo in prima persona, attraverso le strade di Boston e di Cambridge. Egli apre la sua casa, condivide le sue abitudini, i suoi amici. A prima vista Lazy Sunday è un’opera immediata, estremamente sincera, aperta, quasi esibizionista. Emilio è dappertutto, letteralmente. Il titolo della serie dovrebbe però indurre a riflettere: giocando sullo stereotipo dell’italiano disonesto, esperto di rapine e di altri generi di malaffare, egli compie con Lazy Sunday un capolavoro nel suo genere, un colpo all’italiana realizzato in pieno giorno, in regime di assoluta visibilità. È noto, lo ricorda anche Edgar Allan Poe nella Lettera rubata, che chi voglia nascondere una cosa debba esibirla in bella vista. Così, in questo caso, a massima esposizione corrisponde massima chiusura, quasi esclusione. Dell’artista non c’è traccia. A volte lo possiamo riconoscere in uno specchio, la sua testa e il suo corpo sono sempre presenti nel campo visivo dell’osservatore, ma anche dopo aver passato dodici ore “nei suoi panni”, non abbiamo davvero un accesso privilegiato alle sensazioni che ricava dal mondo o ai significati che vi attribuisce. Pur potendo spiare lo spazio dell’artista non ne condividiamo davvero l’ambiente: siamo in qualche modo lì, ma non possiamo agire sfruttando le possibilità che individuiamo intorno a noi.

   Indossando il casco VR si ha l’impressione che l’artista ci porti sulle spalle, siamo una mosca nella stanza, in una posizione analoga a quella del pesce pilota accanto allo squalo. Come una sorta di Pierino, Giamburrasca o Pinocchio, Vavarella ci trascina nei propri svaghi abituali, canticchia, borbotta, a volte sospira, ci regala una serie di avventure quotidiane, un giro in moto durante il quale possiamo ammirare il paesaggio tutto intorno o una gara di nuoto nel lago. Niente di realmente disonesto, il suo portarci in giro si rivela nei fatti una bonaria presa in giro: guarda come mi diverto! E noi? Vavarella sembra suggerire che nonostante siamo dentro all’immagine non siamo davvero presenti. Chi indossa il casco è costretto a seguire i movimenti della telecamera, con la sola libertà di girarsi nella direzione che più preferisce. Dove siamo in effetti quando entriamo nel film a Casa degli Artisti e riviviamo nelle stesse ore (seppure di una domenica diversa) la live performance di Emilio? Facciamo un’esperienza immersiva, ma non siamo davvero presenti, come non lo sarebbe il cervello nella vasca immaginato da Hilary Putnam nel 1981 perché il corpo, fatta eccezione per gli occhi, non ci parla. Vavarella, avatar d’occasione, è la pelle morta che San Bartolomeo tiene tra le mani, un travestimento, un costume da indossare. A partire dall’assunto che stare più vicino significhi sentire più forte, la realtà virtuale è stata spesso considerata il dispositivo empatico per eccellenza. Eppure, essere immersi in un ambiente a 360° può risultare piuttosto in una forma di aggressione, che induce a delle reazioni fisiche e istintive, (ben documentate da decine di video ironici disponibili online), che lasciano poco spazio all’immaginazione del singolo per interpretare i dintorni, sperimentare punti di vista alternativi. Nel caso del cinema a 360° siamo in un ambiente che, seppure autoriferito, non possiamo controllare o manipolare, che non costituisce materiale di dialogo o contrattazione. Come sostiene Andrea Pinotti nel suo ultimo libro (2021), il cinema a 360° tende a indebolire la consapevolezza della differenza tra la percezione di immagine e la percezione in generale, con il rischio di mancare al contempo il riconoscimento dell’iper-mediazione determinata dalla tecnologia necessaria per ottenere un’esperienza simile e la dimensione di ineliminabile differenza dell’altro. Se per non risultare disfunzionale l’immaginazione ha bisogno di esercitarsi in una “giusta distanza” (Koukouti e Malafouris 2020), l’“improper distance” (Nash 2017) che la VR determina può cancellare la consapevolezza dell’esistenza e dell’importanza di punti di vista alternativi al proprio. Oltretutto, la frustrazione e l’impotenza determinate dal non essere visibili (e sensibili) a se stessi può scoraggiare lo sforzo di immedesimazione, perché non ci si sente davvero qualcun altro. In qualche modo non ci si sente nessuno, divisi fra un insieme di sensazioni che ci restituiscono un mondo che non vediamo e uno che vediamo ma che non è disponibile per l’interazione.

   Nel 2016 Luca Acquarelli e Matteo Treleani hanno scritto che nel cinema a 360° la posizione del fruitore è quella di un osservatore chiamato a testimoniare. Credo che una delle questioni su cui Vavarella chieda di interrogarsi è: testimoniare cosa? Forse vuole essere sicuro che il visitatore sia consapevole: nessuna magia, è solo un trucco. E ancora: il trucco c’è, ma (spesso) non si vede. L’installazione fisica negli spazi di Casa degli Artisti ha richiesto un’ingombrante impalcatura e metri di fili. Un’opera come Lazy Sunday è lontanissima dall’essere immediata, anche perché è costata all’artista molta fatica: dodici ore di live performance portando sulla fronte una telecamera, cui Vavarella si riferisce come a una ferita, analoga alla cicatrice di Harry Potter; e poi ancora un’inesauribile post-produzione, in cui le stesse scene sono state convertite e formattate per essere fruite in VR, viste e riviste in maniera ripetitiva. Ma cosa non si fa “for the sake of art!”, dice ancora Vavarella, dopo otto ore di girato, parlando al telefono con un amico a cui spiega il progetto. Lazy Sunday ha qualcosa di cocciuto e paziente che rende ardua l’impresa anche per chi si limiti a fruirla. Anzitutto perché portare il casco, anche solo per qualche minuto, implica di sopportarne il peso e il fastidio. Quanti saranno a vedere per intero l’opera di Emilio? Quanto si rivela complicato in questa circostanza rivivere una pigra domenica qualunque?

   Nessun essere umano potrebbe vedere contemporaneamente tutto il suo spazio a 360°, figuriamo per dodici ore: se ci perdiamo nella ricerca ossessiva dei dettagli, è probabile che manchiamo di notare cosa di importante sta avvenendo; se scegliamo di direzionare lo sguardo e di focalizzarci su una vicenda, rinunciamo alla visione panoramica che viene offerta dal mezzo. Il cinema immersivo promette qualcosa che forse non è in grado di dare in ogni circostanza, a meno che non se ne ripensi l’utilizzo in maniera specifica. Di certo i dispositivi immersivi hanno da sempre avuto un rapporto con l’industria dell’intrattenimento, e non è infrequente che siano pensati (dalla fantasmagoria, al panorama, al cinema 3D) per attirare la curiosità promettendo delle esperienze sensazionali. Disattendere questa promessa può essere un modo per concentrarsi sul potenziale (e sulle criticità) del mezzo utilizzato, cercando di svelarne il funzionamento e di indicare possibilità di impiego alternative, che non puntino necessariamente all’aspetto performativo, né rincorrano la narrativa dell’interattività. Opere come Lazy Sunday sfruttano il digitale, e specialmente l’immersività consentita dal virtuale, per costruire l’occasione che lasci tempo e spazio a una riflessione pigra e disinteressata, ma capace di sviluppare uno sguardo critico sulla realtà.

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Bibliografia

Acquarelli, Luca e Treleani, Matteo (2016). “Notes on Virtual Reality Cinema: immersion and distance”. MEI : Information et Mediation, 47. URL : http://mei-info.com/revue/47/81/
Koukouti, Maria Danae e Malafouris, Lambros (2020). “Material Imagination: An Anthropological Perspective”. The Cambridge Handbook of the Imagination, ed. Anna Abraham, 30-46. Cambridge: Cambridge University Press.
Nash, Kate (2017). “Virtual reality witness: exploring the ethics of mediated presence”. Studies in Documentary Film, Vol. 12, 2, 119-131.
Pinotti, Andrea (2021). Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale. Torino: Einaudi.


EXHIBITIONS

  • (Solo ExhibitionCasa degli Artisti + 12° Atelier. THE ITALIAN JOB – Job n.3, Lazy Sunday, curated by Elisabetta Modena e Sofia Pirandello (AN-ICON), Milan, Italy

BIBLIOGRAPHY

[CURATORIAL TEXT]

THE ITALIAN JOB

“Un artista della domenica”
Curatorial text for “THE ITALIAN JOB n.3: Lazy Sunday” by Elisabetta Modena, 2022. (eng)

[PDF | PROJECT]

[CURATORIAL TEXT]

THE ITALIAN JOB

“Catch Me if You Can”
Curatorial text for “THE ITALIAN JOB n.3: Lazy Sunday” by Sofia Pirandello, 2022. (eng)

[PDF | PROJECT]

[INTERVIEW]

piano b. Arti e culture visive
“Intervista a Emilio Vavarella”
by Sofia Pirandello, University of Bologna, Department of the Arts, vol. 6, n.1, 2021. (ita)

[PDF | PROJECT (1) | PROJECT (2)]

[PROJECT REVIEW]

Exibart
“12 ore in soggettiva: la reatà virtuale di Emilio Vavarella alla Casa degli Artisti”
7 Gennaio 2022. (ita)

[PDF | PROJECT ]

[PROJECT REVIEW]

Exibart
“L’artista Vavarella si è filmato in un’intera giornata come tante altre”
by Nicola Baroni,  (ita)

[PDF | PROJECT ]

[BOOK]

Nelle storie. Arte, cinema e media immersivi
Modena, Elisabetta. Carocci Editore, June 2022, p. 125

[ACADEMIC PAPER]

Visual Culture Studies
“Lending the Face / Prestare il volton”

by Elisabetta Modena, in VCS n.3, Mimesis Edizioni, 2022. (ita – eng)

[BOOK CHAPTER]

Immersioni. Arte contemporanea e realtà virtuale

“Nel corpo di un altro” and “Performer con il casco”
by Modena, Elisabetta. Milan: Joahn e Levi Editore, 2023 (ita)

[ACADEMIC PAPER]

VCS: Visual Culture Studies
“Lending the face. Lazy Sunday by Emilio Vavarella”
by Modena, Elisabetta in VCS: Visual Culture Studies, (#5 Il volto nell’era digitale), Mimesis Edizioni, 2023, pp. 77-94 (eng)

[PDF | SOURCE]


    • THE ITALIAN JOB n.3 is produced by ERC Advanced Grant “AN-ICON. An-Iconology: History, Theory, and Practices of Environmental Images), Università degli Studi di Milano, Department of Philosophy, Italy.
    • Project curated by Elisabetta Modena and Sofia Pirandello.
    • Special thanks to the AN-ICON research group led by Andrea Pinotti and to Joanna Burdzel, Efe Murat Balıkçıoğlu and Seval Harac.
    • Technical support: Alessandro Costella. Project manager: Giulia Avanza.
    • In collaboration with: 12° Atelier and Casa degli Artisti, Milan, Italy.
    • Additional technical support from the Earth and Planetary Sciences: Visualization Research and Teaching Laboratory; the Film Study Center and the Critical Media Practice Program at Harvard University.